Antichi romani a tavola
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È forse difficile da immaginare, ma la cucina degli antichi Romani era davvero molto diversa da quella odierna. Basti pensare che i semplici alimenti che costituiscono la nostra dieta quotidiana come tè, caffè o zucchero per non parlare di pasta, pomodori, riso, patate e liquori, erano a loro assolutamente sconosciuti. Ma cosa mangiavano gli antichi romani? Su quali alimenti era basata la loro dieta? Come cucinavano i cibi?
Scopriamo insieme le curiosità su quali erano i peccati di gola e i segreti che hanno reso famosi i banchetti dei nostri antenati.
I Romani, popolo sviluppatosi da un piccolo villaggio di agricoltori, mantennero da principio a tavola abitudini frugali. La grande trasformazione della cucina arrivò con le prime conquiste, a partire dai contatti con la Magna Grecia, quando man mano centinaia di ingredienti e cibi sconosciuti arrivarono dai loro nuovi domini. All’inizio mangiavano soprattutto uova, latte e formaggi.
Delle uova preferivano la chiara al tuorlo e le cucinavano come facciamo noi oggi alla coque, sode, al tegamino o strapazzate. L’uovo, simbolo della rinascita e della fecondità, era mangiato sempre all’inizio dei pasti.
Il latte (di capra, vacca, asina o cavalla) considerato un alimento indispensabile era bevuto sia fresco che aromatizzato. Veniva impiegato per preparare zuppe finché non venne sostituito dal brodo di carne. Il latte con aggiunta di farina, miele e frutta serviva per preparare dolci. Da esso si ricavava il formaggio, che gli antichi romani consideravano un piatto completo, usato in aggiunta alla polenta o come condimento. Il burro era usato raramente, poiché non si conosceva la tecnica per conservarlo e veniva impiegato piuttosto come medicinale o unguento per il corpo. Lo yogurt esisteva ma non era paragonabile a quello odierno, visto che era fatto con latte, aceto e cipolla.
La carne venne introdotta con l’urbanizzazione e la più utilizzata era quella di suino mentre la migliore era considerata quella d’agnello o di capretto. La carne meno pregiata era quella di montoni e capre mentre i più ricchi preferivano il pavone e il ghiro. Si consumavano anche la carne d’asino selvatico e la selvaggina di grande e piccola taglia (cinghiale, lepre, oca e anatra).
Non veniva invece mangiata la carne di bue, sia perché questo veniva utilizzato nel lavoro dei campi, sia perché era ritenuto sacro. Per quanto riguarda gli uccelli, oltre a tordi e piccioni, i romani cucinavano specie importate dalle varie regioni dell’impero, come fenicotteri, cicogne e grù e molto ricercati erano i piatti a base di pavone e di fagiano. Quanto al pollo, era considerato poco pregiato e lo mangiavano soprattutto i poveri.
Il pesce era di solito accompagnato da verdure bollite, carni o fegati. Tra le varietà più diffuse c’erano l’orata, la triglia, la sogliola e il luccio. I frutti di mare, che da principio venivano mangiati durante il periodo della carestia, ben presto furono considerati un piatto prelibato. Più tardi il pesce, sia di fiume che di mare o allevato in grandi vivai, divenne per i romani un alimento essenziale, tanto che si contavano ben 150 specie conosciute. Molto richiesti erano aragoste, seppie, scampi, astici, polpi, datteri, rane, gamberi e soprattutto le ostriche di cui addirittura i benestanti possedevano allevamenti personali.
Tra le verdure andavano per la maggiore radici, rape, barbabietole, carote, ravanelli, bulbi, porri, ma anche asparagi, funghi, cavoli, lattuga, cicoria o indivia, carciofi, cetrioli, fave, lenticchie e piselli. Per quanto riguarda i peccati di gola, i gusti degli antichi erano molto simili a quelli di oggi:i cibi più apprezzati erano tartufi, funghi, ostriche e aragoste ma anche asparagi, fichi e cibi speziati.
Sulla tavola dei Romani il pane non mancava quasi mai. Il primo frumento usato per prepararlo fu il farro, che era ai tempi il cereale più coltivato mentre dal grano si ricavava una specie di pappa di frumento. All’inizio il pane veniva fabbricato in casa, poi cuochi e artigiani specializzati aprirono vere e proprie panetterie con tanto di forni e mulini. La prima focaccia romana era guarnita con formaggio, olive, uova e funghi. Vi erano essenzialmente tre tipi di pane: quello nero o dei poveri, il pane bianco (poco migliore del primo) e il pane bianco di farina finissima o pane dei ricchi. Il pane veniva preparato anche con miele, vino, latte, olio, frutti canditi e pepe. Poiché era molto duro, veniva di solito intinto nel vino, nell’olio, nelle minestre o accompagnato dalle salse. Il grano con cui era fatto il pane aveva un’importanza primaria, tanto che vennero promulgate leggi che ne regolavano la corretta distribuzione e organizzati speciali servizi di approvvigionamento. Il grano veniva depositato in magazzini speciali e distribuito alla popolazione sotto forma di grano in chicchi o, più tardi, direttamente in pani già cotti. Da principio al posto del pane veniva usata la polenta che era preparata in un contenitore di terracotta dove al farro si aggiungevano acqua, sale e un po’ di latte e, a seconda dei gusti, fave, cavoli, cipolle, formaggio ed anche alcuni pezzi di carne o di pesce. Questo miscuglio conteneva un’infinità di ingredienti era chiamato satura o satira proprio perché saziava (da cui derivano i termini saturazione e satira, nel senso di battute o scherzi pesanti).
Il vino la bevanda più amata dei romani, concludeva tutte le cene e aveva un carattere sacro. Gli uomini non potevano berlo prima di aver compiuto trent’anni, ovvero la maggiore età, ed era proibito alle donne. Esisteva una prova, chiamata ius osculi (diritto del bacio), che permetteva al marito di baciare la moglie sulla bocca proprio per capire se avesse o meno bevuto. I Romani conoscevano il vino rosso (chiamato nero) e il vino bianco, ma non quello secco.I vini erano pesanti, acidi o amari e venivano serviti in coppe molto larghe e quasi piatte. Spesso veniva miscelato con acqua calda o raffreddata con la neve per abbassarne la gradazione. Quasi mai limpido, per filtrarlo veniva usato un passino. Il vino più famoso? Il vinum mulsum, miscelato con il miele, molto popolare perché permetteva a donne e uomini sotto i trent’anni di aggirare il divieto di bere vino puro. Molto apprezzati erano anche i vini pepati e aromatizzati: di soliti venivano aggiunte spezie come mirra, canna, giunco, cannella e zafferano. Il vino era conservato fino a 15 anni in anfore con tappi di sughero o argilla e sulle anfore usate per il trasporto era riportata su una targhetta l’origine e la data di produzione per tutelare l’acquirente, anche se già all’epoca esistevano casi di alterazione. I vini invecchiati (quelli cioè che avevano passato l’estate successiva alla data di produzione) considerati di gran pregio venivano ostentati dai ricchi nei loro banchetti. Il consumo di vino ebbe la sua espansione in epoca imperiale soprattutto nelle zone di produzione e nelle grandi città. Il consumo medio in un anno era di 140 – 180 litri a persona e la ragione era forse anche nel grande apporto calorifero che dava alla dieta dei romani costituita in gran parte da cereali e vegetali. Non mancavano i surrogati come la “lora”, ricavata dalla fermentazione delle vinacce con acqua subito dopo la vendemmia e la “posca”, formata da acqua e vino inacidito (acetum). Tra i poveri e i barbari era invece diffusa la birra.
Se la cucina nell’antica Roma era generalmente un ambiente piccolo, spesso senza finestra, con un forno per il pane e le focacce, un acquaio e una specie di fornelli in pietra a legna o carbonella, un discorso a sé va fatto per le abitazioni dei ricchi.
Questi, oltre a possedere una cucina vera e propria, avevano al loro servizio almeno due o tre schiavi capeggiati dai migliori cuochi che erano addetti a preparare i pasti. Per le grandi occasioni si ricorreva addirittura a delle vere e proprie squadre di chef e insieme a loro si potevano anche affittare suonatori di flauto, artisti e acrobati. Il cuoco spesso faceva suoi i gusti del padrone per soddisfare al meglio i suoi desideri in cucina.
La particolarità dei cuochi romani era quella di essere bravissimi nell’imitare e camuffare i sapori, riuscivano persino a far credere agli invitati che stavano mangiando pesce mentre stavano servendo loro dell’anatra. Oltre a cambiare il gusto dei cibi si sbizzarrivano anche sul loro aspetto.
Nelle opulente mense dei ricchi, in occasione di grandi banchetti, i piatti di carne o di pesce venivano preparati nei modi più fantasiosi; era in queste occasioni che i cuochi sfoderavano la loro arte, servendo in tavola piatti a base di carne camuffati in modo che avessero l’aspetto di uno stupendo pesce alla griglia o di vere e proprie sculture a tema mitologico.
Famosi sono i piatti serviti nell’ormai epica cena di Trimalcione, descritta da Petronio nel“Satiricon“ e rievocata alcuni secoli dopo da Macrobio. Si narra che in quell’occasione le portate avessero un aspetto esageratamente fantasioso che rispecchiava il modo in cui i Romani ostentavano la loro magnificenza. Nell’immaginario resta il racconto di una lepre servita con le ali in modo da raffigurare Pegaso, il cavallo alato di Bellerofonte, e della scrofa di cinghiale ripiena di tordi vivi con tanto di cinghialini, fatti di pasta, nell’atto di succhiare alle mammelle della madre.
Il “triclinium”, ovvero la sala da pranzo, era il locale più bello della casa, decorato e arredato spesso sfarzosamente (marmi, mosaici, affreschi, fontane, tavoli intarsiati e fiori). Qui c’erano tre grandi recipienti: l’oenophorus per il vino, il caldarium per l’acqua calda, e un cratere (craterra) per la mescita. Vi si entrava col piede destro e ci si accomodava al proprio posto, un lettino per tre persone dove mangiare distesi come i Greci. L’abitudine di mangiare sdraiati era un’usanza sì scomoda ma segno di eleganza e superiorità sociale e infatti donne, ragazzi e meno abbienti mangiavano seduti. I triclinia erano divani lunghi, generalmente nel numero di tre, disposti a ferro di cavallo intorno a una tavola a tre piedi tonda ma talvolta anche quadrata. Il lato del tavolo che era sprovvisto di triclinio era destinato al servizio.
Il letto d’onore era quello che non aveva nessuno di fronte (lectus medius). Fra gli altri due letti, il più importante era quello di destra (lectus summus) e poi l’altro (lectus imus). Il padrone di casa (dominus) si posizionava di solito nel lucus summus in imus e gli altri posti venivano distribuiti secondo una preferenza gerarchica. Ogni letto era occupato, come detto, da tre posti, ma chi non voleva scomodarsi per i suoi ospiti occupava da solo il letto di mezzo, o al massimo con un solo altro ospite. Il cibo poteva essere preso da un piatto di portata o servito da uno schiavo in un piatto personale che si teneva con la mano sinistra appoggiata, mentre con la destra si portava il cibo alla bocca in piccole quantità, attenti a non sporcarsi. I piatti e le coppe erano di terracotta sigillata italica (perché aveva un sigillum). Tra le posate mancava di solito il coltello, perché scomodo da usare stando sdraiati. Per questo i cibi venivano serviti già tagliati da appositi servi chiamati scissores. Posate utilizzate erano invece i cucchiai (ligulae) e uno in particolare, chiamato coglea, serviva a sgusciare le lumache di cui i Romani erano ghiotti.
Generalmente si mangiava con le mani, e anzi era considerato elegante portare il cibo alla bocca con la punta delle dita. Un’altra abitudine che potrebbe sembrarci segno di maleducazione era quella di gettare gli avanzi del cibo mangiato per terra, ma per loro si trattava di un segno di apprezzamento e una dimostrazione d’abbondanza. Durante la cena non era raro assistere a dei balletti, in special modo quelli lascivi delle danzatrici di Cadice a suon di nacchere. Presto ci si rese tuttavia conto che gli eccessi alimentari erano la principale causa di molte malattie, e così arrivarono i primi trattati di gastronomia e con essi quelli di dietetica che fecero scuola fino al Medioevo. Preoccupazioni giustificate, se si pensa che i banchetti del periodo imperiale potevano annoverare fino a cento e più portate.
Quando, come e che cosa mangiavano gli antichi Romani? Di solito la giornata era articolata in tre pasti:colazione, pranzo e cena. Il pasto più importante della giornata era la cena mentre la colazione e il pranzo venivano consumati in fretta e non era raro che uno dei due venisse saltato.
Alzatosi dal letto all’alba, l’antico Romano faceva colazione con gli avanzi della sera (formaggio, olive, pane, miele), latte fresco e focaccette. Intorno a mezzogiorno, nell’intervallo delle attività nell’Urbe, si mangiava qualcosa dai venditori ambulanti, preferendo cibi caldi d’inverno e freschi d’estate. La cena si consumava al ritorno dal bagno alle terme dove si potevano incontrare i conoscenti e invitarli alla propria mensa. Le terme erano anche il ritrovo di molti sfaccendati che andavano lì proprio con la speranza di ricevere un invito da qualche amico.
La cena era legata al tramonto del sole, era un pasto abbondante e si teneva alla presenza di tutta la famiglia. Quando a cena c’erano ospiti, il pasto era chiamato convivium e si articolava in antipasti, piatti forti (caput cenae) e dessert (mensa secunda). Il pasto terminava con i brindisi che consisteva in una serie di coppe bevute tutte d’un fiato, che venivano accompagnati dall’incitazione bacchica Evoè o dal più attuale prosit.
Nelle case dei ricchi i cuochi erano diretti da uno chef e gli ospiti arrivavano in tenuta di gala. Diverso il discorso per i cittadini più poveri che spesso mangiavano per strada. Molto diffuse erano le taverne e i venditori ambulanti, che vendevano per lo più olive, pesci in salamoia, pezzetti di carne arrosto, uccelli allo spiedo, polpi in umido, frutta, dolci e formaggio. Il pasto di un povero di solito consisteva in un pezzo di pane e piccoli pesci in salamoia accompagnati da un bicchiere d’acqua o di vino tra i più scadenti.
Tipico dei Romani era mischiare dolce e salato. Spesso si univano insieme carne, pesce e uccelli selvatici ma soprattutto la particolarità della loro cucina era il massiccio utilizzo delle salse che accompagnavano ogni piatto. Nel corso della preparazione si pensa addirittura che i cibi perdessero il loro sapore originale a causa della cottura (la carne veniva cotta almeno due volte: la prima nel latte e la seconda o con le verdure o arrostita) e per i condimenti eccessivi (basta ricordare che nelle ricette non compaiono mai i dosaggi).
L’arte dei cuochi non consisteva solo nel saper mascherare l’aspetto di un cibo, ma anche il suo sapore (anche perché non esistendo i frigoriferi bisognava camuffare il sapore rancido di alcuni alimenti). Le varie salse erano composte con ingredienti che avevano poco a che vedere con la pietanza principale del piatto, ne sono un esempio le salse di pesce o frutta su ricette a base di carne. Fra le salse, la più famosa era il garum (dal greco garon dal nome della specie di pesce utilizzata) o liquamen, sorta di composto ottenuto dalla macerazione sotto sale di interiora di pesce con olio, vino, aceto e pepe. Un intingolo che per i nostri gusti avrebbe avuto un odore e un sapore nauseabondo, come del resto già pensavano anche personaggi dell’epoca, come Marziale. L’industria del garum era molto sviluppata nel Mediterraneo, quello più pregiato veniva prodotto in Spagna ed era molto costoso mentre nella nostra penisola il garum più rinomato era quello prodotto a Pompei. Altre spezie indispensabili nell’antica cucina romana erano lo zafferano, il pepe e lo zenzero.
I Romani ricavavano molti condimenti anche dall’aceto e per legare le salse usavano la fecola. Per quanto riguarda l’olio d’oliva, oltre che come condimento veniva usato per la medicina e per l’illuminazione e se ne trovavano diverse qualità. Il consumo medio di un cittadino romano era di circa due litri in un mese e per avere un’idea basta pensare che il Monte Testaccio era composto essenzialmente da resti di anfore olearie, in gran parte provenienti dalla regione della Betica (Spagna meridionale), il più grande esportatore di olio dell’epoca. Visto il clima mite della città i Romani divennero anche maestri delle tecniche di conservazione dei cibi: affumicavano (di solito i formaggi), deidratavano (le carni), spalmavano il miele o, ancora, mettevano sotto sale.
I Romani, popolo sviluppatosi da un piccolo villaggio di agricoltori, mantennero da principio a tavola abitudini frugali. La grande trasformazione della cucina arrivò con le prime conquiste, a partire dai contatti con la Magna Grecia, quando man mano centinaia di ingredienti e cibi sconosciuti arrivarono dai loro nuovi domini. All’inizio mangiavano soprattutto uova, latte e formaggi.
Delle uova preferivano la chiara al tuorlo e le cucinavano come facciamo noi oggi alla coque, sode, al tegamino o strapazzate. L’uovo, simbolo della rinascita e della fecondità, era mangiato sempre all’inizio dei pasti.
Il latte (di capra, vacca, asina o cavalla) considerato un alimento indispensabile era bevuto sia fresco che aromatizzato. Veniva impiegato per preparare zuppe finché non venne sostituito dal brodo di carne. Il latte con aggiunta di farina, miele e frutta serviva per preparare dolci. Da esso si ricavava il formaggio, che gli antichi romani consideravano un piatto completo, usato in aggiunta alla polenta o come condimento. Il burro era usato raramente, poiché non si conosceva la tecnica per conservarlo e veniva impiegato piuttosto come medicinale o unguento per il corpo. Lo yogurt esisteva ma non era paragonabile a quello odierno, visto che era fatto con latte, aceto e cipolla.
La carne venne introdotta con l’urbanizzazione e la più utilizzata era quella di suino mentre la migliore era considerata quella d’agnello o di capretto. La carne meno pregiata era quella di montoni e capre mentre i più ricchi preferivano il pavone e il ghiro. Si consumavano anche la carne d’asino selvatico e la selvaggina di grande e piccola taglia (cinghiale, lepre, oca e anatra).
Non veniva invece mangiata la carne di bue, sia perché questo veniva utilizzato nel lavoro dei campi, sia perché era ritenuto sacro. Per quanto riguarda gli uccelli, oltre a tordi e piccioni, i romani cucinavano specie importate dalle varie regioni dell’impero, come fenicotteri, cicogne e grù e molto ricercati erano i piatti a base di pavone e di fagiano. Quanto al pollo, era considerato poco pregiato e lo mangiavano soprattutto i poveri.
Il pesce era di solito accompagnato da verdure bollite, carni o fegati. Tra le varietà più diffuse c’erano l’orata, la triglia, la sogliola e il luccio. I frutti di mare, che da principio venivano mangiati durante il periodo della carestia, ben presto furono considerati un piatto prelibato. Più tardi il pesce, sia di fiume che di mare o allevato in grandi vivai, divenne per i romani un alimento essenziale, tanto che si contavano ben 150 specie conosciute. Molto richiesti erano aragoste, seppie, scampi, astici, polpi, datteri, rane, gamberi e soprattutto le ostriche di cui addirittura i benestanti possedevano allevamenti personali.
Tra le verdure andavano per la maggiore radici, rape, barbabietole, carote, ravanelli, bulbi, porri, ma anche asparagi, funghi, cavoli, lattuga, cicoria o indivia, carciofi, cetrioli, fave, lenticchie e piselli. Per quanto riguarda i peccati di gola, i gusti degli antichi erano molto simili a quelli di oggi:i cibi più apprezzati erano tartufi, funghi, ostriche e aragoste ma anche asparagi, fichi e cibi speziati.
Sulla tavola dei Romani il pane non mancava quasi mai. Il primo frumento usato per prepararlo fu il farro, che era ai tempi il cereale più coltivato mentre dal grano si ricavava una specie di pappa di frumento. All’inizio il pane veniva fabbricato in casa, poi cuochi e artigiani specializzati aprirono vere e proprie panetterie con tanto di forni e mulini. La prima focaccia romana era guarnita con formaggio, olive, uova e funghi. Vi erano essenzialmente tre tipi di pane: quello nero o dei poveri, il pane bianco (poco migliore del primo) e il pane bianco di farina finissima o pane dei ricchi. Il pane veniva preparato anche con miele, vino, latte, olio, frutti canditi e pepe. Poiché era molto duro, veniva di solito intinto nel vino, nell’olio, nelle minestre o accompagnato dalle salse. Il grano con cui era fatto il pane aveva un’importanza primaria, tanto che vennero promulgate leggi che ne regolavano la corretta distribuzione e organizzati speciali servizi di approvvigionamento. Il grano veniva depositato in magazzini speciali e distribuito alla popolazione sotto forma di grano in chicchi o, più tardi, direttamente in pani già cotti. Da principio al posto del pane veniva usata la polenta che era preparata in un contenitore di terracotta dove al farro si aggiungevano acqua, sale e un po’ di latte e, a seconda dei gusti, fave, cavoli, cipolle, formaggio ed anche alcuni pezzi di carne o di pesce. Questo miscuglio conteneva un’infinità di ingredienti era chiamato satura o satira proprio perché saziava (da cui derivano i termini saturazione e satira, nel senso di battute o scherzi pesanti).
Il vino la bevanda più amata dei romani, concludeva tutte le cene e aveva un carattere sacro. Gli uomini non potevano berlo prima di aver compiuto trent’anni, ovvero la maggiore età, ed era proibito alle donne. Esisteva una prova, chiamata ius osculi (diritto del bacio), che permetteva al marito di baciare la moglie sulla bocca proprio per capire se avesse o meno bevuto. I Romani conoscevano il vino rosso (chiamato nero) e il vino bianco, ma non quello secco.I vini erano pesanti, acidi o amari e venivano serviti in coppe molto larghe e quasi piatte. Spesso veniva miscelato con acqua calda o raffreddata con la neve per abbassarne la gradazione. Quasi mai limpido, per filtrarlo veniva usato un passino. Il vino più famoso? Il vinum mulsum, miscelato con il miele, molto popolare perché permetteva a donne e uomini sotto i trent’anni di aggirare il divieto di bere vino puro. Molto apprezzati erano anche i vini pepati e aromatizzati: di soliti venivano aggiunte spezie come mirra, canna, giunco, cannella e zafferano. Il vino era conservato fino a 15 anni in anfore con tappi di sughero o argilla e sulle anfore usate per il trasporto era riportata su una targhetta l’origine e la data di produzione per tutelare l’acquirente, anche se già all’epoca esistevano casi di alterazione. I vini invecchiati (quelli cioè che avevano passato l’estate successiva alla data di produzione) considerati di gran pregio venivano ostentati dai ricchi nei loro banchetti. Il consumo di vino ebbe la sua espansione in epoca imperiale soprattutto nelle zone di produzione e nelle grandi città. Il consumo medio in un anno era di 140 – 180 litri a persona e la ragione era forse anche nel grande apporto calorifero che dava alla dieta dei romani costituita in gran parte da cereali e vegetali. Non mancavano i surrogati come la “lora”, ricavata dalla fermentazione delle vinacce con acqua subito dopo la vendemmia e la “posca”, formata da acqua e vino inacidito (acetum). Tra i poveri e i barbari era invece diffusa la birra.
Se la cucina nell’antica Roma era generalmente un ambiente piccolo, spesso senza finestra, con un forno per il pane e le focacce, un acquaio e una specie di fornelli in pietra a legna o carbonella, un discorso a sé va fatto per le abitazioni dei ricchi.
Questi, oltre a possedere una cucina vera e propria, avevano al loro servizio almeno due o tre schiavi capeggiati dai migliori cuochi che erano addetti a preparare i pasti. Per le grandi occasioni si ricorreva addirittura a delle vere e proprie squadre di chef e insieme a loro si potevano anche affittare suonatori di flauto, artisti e acrobati. Il cuoco spesso faceva suoi i gusti del padrone per soddisfare al meglio i suoi desideri in cucina.
La particolarità dei cuochi romani era quella di essere bravissimi nell’imitare e camuffare i sapori, riuscivano persino a far credere agli invitati che stavano mangiando pesce mentre stavano servendo loro dell’anatra. Oltre a cambiare il gusto dei cibi si sbizzarrivano anche sul loro aspetto.
Nelle opulente mense dei ricchi, in occasione di grandi banchetti, i piatti di carne o di pesce venivano preparati nei modi più fantasiosi; era in queste occasioni che i cuochi sfoderavano la loro arte, servendo in tavola piatti a base di carne camuffati in modo che avessero l’aspetto di uno stupendo pesce alla griglia o di vere e proprie sculture a tema mitologico.
Famosi sono i piatti serviti nell’ormai epica cena di Trimalcione, descritta da Petronio nel“Satiricon“ e rievocata alcuni secoli dopo da Macrobio. Si narra che in quell’occasione le portate avessero un aspetto esageratamente fantasioso che rispecchiava il modo in cui i Romani ostentavano la loro magnificenza. Nell’immaginario resta il racconto di una lepre servita con le ali in modo da raffigurare Pegaso, il cavallo alato di Bellerofonte, e della scrofa di cinghiale ripiena di tordi vivi con tanto di cinghialini, fatti di pasta, nell’atto di succhiare alle mammelle della madre.
Il “triclinium”, ovvero la sala da pranzo, era il locale più bello della casa, decorato e arredato spesso sfarzosamente (marmi, mosaici, affreschi, fontane, tavoli intarsiati e fiori). Qui c’erano tre grandi recipienti: l’oenophorus per il vino, il caldarium per l’acqua calda, e un cratere (craterra) per la mescita. Vi si entrava col piede destro e ci si accomodava al proprio posto, un lettino per tre persone dove mangiare distesi come i Greci. L’abitudine di mangiare sdraiati era un’usanza sì scomoda ma segno di eleganza e superiorità sociale e infatti donne, ragazzi e meno abbienti mangiavano seduti. I triclinia erano divani lunghi, generalmente nel numero di tre, disposti a ferro di cavallo intorno a una tavola a tre piedi tonda ma talvolta anche quadrata. Il lato del tavolo che era sprovvisto di triclinio era destinato al servizio.
Il letto d’onore era quello che non aveva nessuno di fronte (lectus medius). Fra gli altri due letti, il più importante era quello di destra (lectus summus) e poi l’altro (lectus imus). Il padrone di casa (dominus) si posizionava di solito nel lucus summus in imus e gli altri posti venivano distribuiti secondo una preferenza gerarchica. Ogni letto era occupato, come detto, da tre posti, ma chi non voleva scomodarsi per i suoi ospiti occupava da solo il letto di mezzo, o al massimo con un solo altro ospite. Il cibo poteva essere preso da un piatto di portata o servito da uno schiavo in un piatto personale che si teneva con la mano sinistra appoggiata, mentre con la destra si portava il cibo alla bocca in piccole quantità, attenti a non sporcarsi. I piatti e le coppe erano di terracotta sigillata italica (perché aveva un sigillum). Tra le posate mancava di solito il coltello, perché scomodo da usare stando sdraiati. Per questo i cibi venivano serviti già tagliati da appositi servi chiamati scissores. Posate utilizzate erano invece i cucchiai (ligulae) e uno in particolare, chiamato coglea, serviva a sgusciare le lumache di cui i Romani erano ghiotti.
Generalmente si mangiava con le mani, e anzi era considerato elegante portare il cibo alla bocca con la punta delle dita. Un’altra abitudine che potrebbe sembrarci segno di maleducazione era quella di gettare gli avanzi del cibo mangiato per terra, ma per loro si trattava di un segno di apprezzamento e una dimostrazione d’abbondanza. Durante la cena non era raro assistere a dei balletti, in special modo quelli lascivi delle danzatrici di Cadice a suon di nacchere. Presto ci si rese tuttavia conto che gli eccessi alimentari erano la principale causa di molte malattie, e così arrivarono i primi trattati di gastronomia e con essi quelli di dietetica che fecero scuola fino al Medioevo. Preoccupazioni giustificate, se si pensa che i banchetti del periodo imperiale potevano annoverare fino a cento e più portate.
Quando, come e che cosa mangiavano gli antichi Romani? Di solito la giornata era articolata in tre pasti:colazione, pranzo e cena. Il pasto più importante della giornata era la cena mentre la colazione e il pranzo venivano consumati in fretta e non era raro che uno dei due venisse saltato.
Alzatosi dal letto all’alba, l’antico Romano faceva colazione con gli avanzi della sera (formaggio, olive, pane, miele), latte fresco e focaccette. Intorno a mezzogiorno, nell’intervallo delle attività nell’Urbe, si mangiava qualcosa dai venditori ambulanti, preferendo cibi caldi d’inverno e freschi d’estate. La cena si consumava al ritorno dal bagno alle terme dove si potevano incontrare i conoscenti e invitarli alla propria mensa. Le terme erano anche il ritrovo di molti sfaccendati che andavano lì proprio con la speranza di ricevere un invito da qualche amico.
La cena era legata al tramonto del sole, era un pasto abbondante e si teneva alla presenza di tutta la famiglia. Quando a cena c’erano ospiti, il pasto era chiamato convivium e si articolava in antipasti, piatti forti (caput cenae) e dessert (mensa secunda). Il pasto terminava con i brindisi che consisteva in una serie di coppe bevute tutte d’un fiato, che venivano accompagnati dall’incitazione bacchica Evoè o dal più attuale prosit.
Nelle case dei ricchi i cuochi erano diretti da uno chef e gli ospiti arrivavano in tenuta di gala. Diverso il discorso per i cittadini più poveri che spesso mangiavano per strada. Molto diffuse erano le taverne e i venditori ambulanti, che vendevano per lo più olive, pesci in salamoia, pezzetti di carne arrosto, uccelli allo spiedo, polpi in umido, frutta, dolci e formaggio. Il pasto di un povero di solito consisteva in un pezzo di pane e piccoli pesci in salamoia accompagnati da un bicchiere d’acqua o di vino tra i più scadenti.
Tipico dei Romani era mischiare dolce e salato. Spesso si univano insieme carne, pesce e uccelli selvatici ma soprattutto la particolarità della loro cucina era il massiccio utilizzo delle salse che accompagnavano ogni piatto. Nel corso della preparazione si pensa addirittura che i cibi perdessero il loro sapore originale a causa della cottura (la carne veniva cotta almeno due volte: la prima nel latte e la seconda o con le verdure o arrostita) e per i condimenti eccessivi (basta ricordare che nelle ricette non compaiono mai i dosaggi).
L’arte dei cuochi non consisteva solo nel saper mascherare l’aspetto di un cibo, ma anche il suo sapore (anche perché non esistendo i frigoriferi bisognava camuffare il sapore rancido di alcuni alimenti). Le varie salse erano composte con ingredienti che avevano poco a che vedere con la pietanza principale del piatto, ne sono un esempio le salse di pesce o frutta su ricette a base di carne. Fra le salse, la più famosa era il garum (dal greco garon dal nome della specie di pesce utilizzata) o liquamen, sorta di composto ottenuto dalla macerazione sotto sale di interiora di pesce con olio, vino, aceto e pepe. Un intingolo che per i nostri gusti avrebbe avuto un odore e un sapore nauseabondo, come del resto già pensavano anche personaggi dell’epoca, come Marziale. L’industria del garum era molto sviluppata nel Mediterraneo, quello più pregiato veniva prodotto in Spagna ed era molto costoso mentre nella nostra penisola il garum più rinomato era quello prodotto a Pompei. Altre spezie indispensabili nell’antica cucina romana erano lo zafferano, il pepe e lo zenzero.
I Romani ricavavano molti condimenti anche dall’aceto e per legare le salse usavano la fecola. Per quanto riguarda l’olio d’oliva, oltre che come condimento veniva usato per la medicina e per l’illuminazione e se ne trovavano diverse qualità. Il consumo medio di un cittadino romano era di circa due litri in un mese e per avere un’idea basta pensare che il Monte Testaccio era composto essenzialmente da resti di anfore olearie, in gran parte provenienti dalla regione della Betica (Spagna meridionale), il più grande esportatore di olio dell’epoca. Visto il clima mite della città i Romani divennero anche maestri delle tecniche di conservazione dei cibi: affumicavano (di solito i formaggi), deidratavano (le carni), spalmavano il miele o, ancora, mettevano sotto sale.